Spesso ci si interroga su quale sia il ruolo dei professionisti di fronte alle continue sfide del nuovo millennio, così rapido nei cambiamenti e così esigente in termini di prestazioni.
Quale è quindi il ruolo del paesaggista negli anni Venti del XXI secolo?
Non siamo più alle corti dei grandi sovrani in cui l'architetto del paesaggio aveva il compito ben preciso di dimostrare la grandezza e legittimare il potere del monarca progettando strabilianti architetture verdi con scenografiche prospettive; non siamo nemmeno più in epoca romantica in cui gli si chiedeva di ricreare sapientemente ambienti semi-naturali dedicati alla contemplazione della natura e del paesaggio.
Il ruolo del paesaggista in questi ultimi anni, in cui si sono concluse da tempo anche le grandi opere di urbanizzazione, è stato quello di riconvertire i luoghi degradati o dismessi e ricucire le ferite degli spazi urbani che presentavano criticità.
Sicuramente credo che uno dei ruoli del paesaggista sia quello di continuare a progettare spazi verdi di qualità, pubblici e privati, in modo tale che le persone possano tornare a riappropriarsi della loro vita all'aperto (tanto negata e sofferta durante il primo anno di pandemia), ma soprattutto credo che il ruolo primario e più urgente ora sia quello di sensibilizzare e coinvolgere le masse per poter innescare il "cambiamento verde", l'inversione di rotta necessaria per contrastare i cambiamenti climatici e gli alti livelli di inquinamento.
Il ruolo del paesaggista oggi è quello di "portavoce del cambiamento", capace di coinvolgere in prima persona le nuove generazioni e farle sentire parte attiva dell'inversione di rotta, ecologica e sostenibile.
L'auspicato cambiamento, affinché risulti efficace, dovrebbe essere capillare (ovvero non si dovrebbero escludere i piccoli spazi come terrazzi o pocket gardens, fondamentali anche per le reti ecologiche) e globale (ovvero dovrebbe coinvolgere la maggior parte degli spazi aperti). Proprio per queste ragioni sarebbe necessario che tutti fossero direttamente coinvolti.
Per raggiungere questo obiettivo, apparentemente utopico, i paesaggisti dovrebbero vedere il loro lavoro come una sorta di missione e quindi dovrebbero partecipare continuamente a conferenze e seminari coinvolgendo la cittadinanza, organizzare piccoli eventi negli spazi abbandonati cittadini (per mostrare in modo pratico e concreto il valore degli spazi aperti, anche in chiave sociale), progettare attività ludico-didattiche in parchi e giardini per i bambini, per sensibilizzarli giocando sin dalla tenera età.
L'architetto del paesaggio dovrebbe quindi avere la forza per innescare il cambiamento e portare le persone a desiderare realtà urbane migliori, più verdi e vivibili in tutte le stagioni. Sarebbe bello pensare che gli spazi verdi potessero diventare i trait d'union tra i cittadini e li potessero far riavvicinare, in sicurezza, anche in tempo di pandemia; i luoghi urbani di frangia o periferia non sarebbero così più percepiti solo come luoghi di transito ma come spazi di qualità per la sosta, il relax e la socializzazione.
Concludo riprendendo le parole che ho sentito anni fa pronunciare da un grande paesaggista durante un convegno e che ormai sono diventate il mio motto: "Let's keep dreaming - all together (aggiungo io) - in a green(er) world!"
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